Analisi elaborata da Eutimio Tiliacos advisor Gabbrielli & Associati, past chairman Italian Linacre Society Oxford University, Socio Onorario Assoconsulenza Associazione Italiana Consulenti di Investimento www.assoconsulenza.eu
Ottobre 2012
C’è un passo letterario che meglio di ogni altro illustra la situazione economica attuale; è quello tratto dall’Enrico VI di Shakespeare allorchè il protagonista così recita “This battle fares like to the morning’s war when dying clouds contend with growing light” Questa battaglia è come la guerra del mattino quando nubi morenti lottano con la luce che sorge….(continua poi)….e il pastore soffiandosi sulle dita intirizzite dal freddo non sa se sia giorno o notte. Ora la vittoria inclina da questa parte, come un mare possente forzato dalla marea a combattere col vento; ora inclina dall’altra parte, come quello stesso mare che la furia del vento forzi a ritirarsi; talora vince il vento e talora la marea; ora l’uno è più forte ora l’altra fortissima: lottano entrambi per la vittoria corpo a corpo, e nessuno è vincitore o vinto (W.Shakespeare, Enrico VI parte III scena V).
In questa immagine, meravigliosamente tratteggiata da Shakespeare, si possono riconoscere forti assonanze con lo scontro attualmente in atto a livello mondiale fra sostenitori: gli uni di una linea tutta e solo inspirata al rigore fiscale e gli altri sostenitori invece di una linea tutta e solo improntata al sostegno delle istituzioni finanziarie. La speranza in chi crede in questa seconda ricetta è che il ripristinarsi di condizioni di equilibrio nei conti delle banche prima o poi produca effetti anche sulla economia reale e sulla crescita (ingrediente evocato come una bacchetta magica, una sorta di lievito spontaneo che non si sa però presso quale negozio si possa acquistare). Si sta insomma perdendo di vista il fatto che le dottrine politiche ed economiche non contribuiscono che parzialmente a realizzare quell’elevato oggetto del pensiero umano che è la politica economica. Questa ha (o dovrebbe avere) carattere in parte autonomo dalle rigide teorie di scuola essendo la politica economica cosa ben diversa dai manicheismi ideologici prevalenti in materia economica.
Oggi difatti l’economia è condotta come una nave che debba necessariamente seguire una rotta costantemente lineare fra il punto di partenza e quello di approdo. Il buon comandante però non è quello che tira dritto senza riguardo ai pericoli, ma è colui che evita scogli e tempeste adattando la rotta anche alle circostanze contingenti: altrimenti sarebbe pericoloso per sé stesso, per l’armatore proprietario della imbarcazione e per l’equipaggio. Ciò premesso va anche aggiunto che se alla fine del suo viaggio la nave non può entrare in porto perché il fondale non è stato dragato per tempo e a sufficienza per consentirne l’accesso senza che essa si incagli, il viaggio si può rivelare inutile: come una unione economica e monetaria che non sia stata sostenuta da un diffuso processo di adeguamento alla nuova realtà di un mondo globalizzato. In Europa nei decenni trascorsi solo alcuni paesi sembrano aver fatto a tale riguardo i compiti a casa.
Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale dal titolo “External Imbalances in the Euro Area” IMF WP/12/236 September 2012 http://www.imf.org/external/pubs/cat/longres.aspx?sk=40027.0 , ci spiega che alcuni paesi della Unione Europea (leggi Grecia, Portogallo, Spagna e anche Italia) hanno continuato a indebitarsi con quelli più forti (Germania) per finanziare i loro deficit commerciali che si andavano accumulando per effetto combinato: a) di un crescente saldo negativo di bilancia dei pagamenti verso paesi quali la Cina e b) di surplus commerciali decrescenti verso alcune aree e mercati tradizionali sempre più esposti alla concorrenza di paesi emergenti. Mentre la Germania è riuscita a contenere, anzi a controbattere efficacemente con adeguate iniziative di politica economica, di politica industriale e di politica estera il fenomeno dell’invadenza commerciale della Cina e degli altri paesi emergenti, esportando verso di loro alti volumi di prodotti ad alta tecnologia e delocalizzando (ma pur sempre controllando) alcune produzioni a basso valore aggiunto in paesi di nuovo accesso nella UE ubicati nell’Europa Orientale, per contro Grecia, Portogallo, Spagna e Italia non lo hanno fatto o lo hanno fatto troppo poco, lasciando per di più che le merci da loro esportate si apprezzassero artificialmente rispetto a quelle dei concorrenti a seguito della rivalutazione dell’Euro trascinato in alto dalle straordinarie performances dell’economia tedesca: We argue that the large current account imbalances of individual euro area countries reflected to an important extent the asymmetric impact of trade shocks originating outside the euro area, as well as sustained cheap financing from core euro area countries to the largest net debtors. In particular, the rise of China generated strong demand for machinery and equipment goods exported by Germany while exports from euro area debtor countries were displaced from their foreign markets by Chinese exports…….. German firms continued their outwards integration by setting up production platforms in emerging Europe to take advantage of a higher return on capital and lower wage costs which boosted competitiveness and exports of emerging Europe to the euro area debtor countries. The continued easy financing (until the crisis erupted) allowed deficit countries to sustain appreciating real effective exchange rates, which were also driven by the nominal appreciation of the euro, and delayed the adjustment needed to end the growing divergence of trade performance within the monetary union.(cfr working paper citato IMF12/236).
E’ noto inoltre da tempo che l’ammontare degli investimenti diretti verso l’estero di imprese italiane è sempre stato basso nel confronto con quanto realizzato da altri paesi industrializzati, come altrettanto noto è lo scarso peso degli investimenti italiani in innovazione e ricerca (cfr Innovation Union Scoreboard 2011 http://ec.europa.eu/enterprise/policies/innovation/facts-figures-analysis/innovation-scoreboard/index_en.htm ) e la ridotta incidenza in particolare delle spese in innovazione e ricerca effettuate dalle imprese private italiane in rapporto al PIL. La scorciatoia era il design, ma quando si tratta di esportare non capi di abbigliamento ma interi impianti industriali o progetti infrastrutturali sofisticatissimi bisogna avere tecnologie competitive e dunque innovare continuamente. Purtroppo per noi i macchinari tecnologicamente avanzati non sfilano in passerella; possono essere al massimo esposti in mostre, ma devono poi soprattutto funzionare in modo affidabile e generare reddito.
Il nostro deficit di innovazione ce lo descrive molto bene (quasi ce lo sbatte in faccia) uno studio della Deutsche Bank del Giugno scorso (cfr “Need to boost R&D efforts in the business sector” DB Research June 6, 2012 http://www.dbresearch.de/servlet/reweb2.ReWEB?addmenu=false&document=PROD0000000000289301&rdShowArchivedDocus=true&rwnode=DBR_INTERNET_EN-PROD$IMAPS&rwobj=ReDisplay.Start.class&rwsite=DBR_INTERNET_EN-PROD) in cui si afferma che il settore privato italiano ha fatto peggio di Spagna e Portogallo nel periodo 2000-2007 per quanto riguarda investimenti in innovazione e ricerca rispetto al PIL: The countries of southern Europe require growth, not least in order to rein in their debt on a long-term basis. Besides conducting structural reforms and privatisations they need to improve the conditions for innovative activity, increase the number of business start-ups and promote the growth of high-tech companies. Across Europe it can be seen that not only countries such as Greece and Portugal but also Italy and Spain provide a considerably poorer environment for innovation than the EU-27 average. This is documented by the Innovation Union Scoreboard recently released by the European Commission. The Scoreboard evaluates 24 individual indicators and, among other things, analyses research and development (R&D) expenditure in the business sector. In Italy, Spain and Portugal business R&D expenditure totalled only 0.7% of GDP in 2010, while in Greece it was a meagre 0.2% (2007). Not only Portugal – in particular – but also Spain had managed to boost the level of business expenditure on R&D between the turn of the millennium and the beginning of the financial crisis (by 0.4 and 0.2 percentage points, respectively). By contrast, Greece and Italy posted virtually no such growth up to 2007. Particolarmente significativo il passaggio in cui si afferma che gli effetti delle azioni sinora intraprese dall’Italia in tema di riforme strutturali e di privatizzazioni possono essere vanificati da una carenza di investimenti e dallo scarso impegno manageriale e imprenditoriale nel campo della innovazione e ricerca. Un giudizio che può apparire severo ma è coerente con i dati pubblicati dalla Commissione Europea.
Analoghe considerazioni valgono per il deficit strutturale di capacità organizzativa che affligge l’Italia rispetto ad altri paesi. Nel numero di Aprile 2012 di Lettera ANESTI così commentavamo i dati OCSE sulla produttività affermando che la nostra arretratezza era riconducibile in gran parte ad un deficit di capacità organizzativa e manageriale: Uno studio dell’OCSE pubblicato nel Dicembre scorso (2011 n.d.r.) delinea, attraverso una analisi disaggregata http://dx.doi.org/10.1787/888932503512 , l’apporto che ciascuno dei fattori produttivi ha fornito negli anni alla crescita economica. ……I dati OCSE di confronto a livello internazionale traguardati al periodo che va dal 1985 al 2009 (OECD Factbook 2011) rivelano sorprendentemente che il problema della bassa produttività dell’apparato produttivo italiano è principalmente riconducibile ad una bassa incisività del fattore organizzativo più che ad una bassa produttività del lavoro in sè. Infatti mentre per quanto concerne il fattore lavoro, nell’arco di anni che vanno dal 1985 al 2009, l’apporto medio annuo dell’incremento di produttività alla crescita del PIL è stato negativo in Germania (-0,27%) e invece positivo (+0,33%) in Italia, drammatica –a nostro sfavore- è invece la differenza all’apporto annuo al PIL se ad essere presa in esame è la capacità manageriale nell’organizzare efficientemente i fattori produttivi (MFP) che vede in Germania un apporto medio annuo al PIL del +0,85%, USA +1,02%, Regno Unito +1,26%, Giappone +1,45%, Irlanda +2,86%, Corea +3,76%, contro appena il +0,15% per l’Italia come media dell’intero periodo 1985/2009 (www.anesti.it > Lettera ANESTI > Aprile 2012).
Per il nostro paese sarebbe il momento di prendere coscienza del fatto che il mare che la navicella italiana solca non è un bacino tranquillo in cui siano sufficienti cure dimagranti per alleggerire il peso dell’imbarcazione e continuare a viaggiare con la stessa velocità di prima e sulle stesse rotte. E’ un oceano sconfinato e agitato, pieno di correnti, di onde anomale e di tempeste. Necessita perciò per essere navigato di un enorme apporto intellettuale che al momento, nella fattispecie italiana, sembra invece gravato da torpore e disattenzione, come la conduzione della Costa Concordia prima del disastro dell’Isola del Giglio. E’ inoltre un oceano percorso da conflitti sotterranei.
La situazione nel mondo va infatti radicalizzandosi anche sotto il profilo strategico-militare. Dopo due guerre mondiali e la guerra fredda è in corso una guerra tecnologica cosiddetta “cibernetica” che –come tutte le guerre moderne- affonda le sue radici e ha al contempo come fine, la competizione commerciale: eppure in Italia pochissimi ne sono coscienti. In Italia di queste cose si parla pochissimo o affatto e il problema sembra non riguardarci. E’ come se la partecipazione a competizioni tecnologiche, l’uso e i rischi che comportano alcune di queste tecnologie se gestite impropriamente, la loro finalizzazione a scopi commerciali antagonisti con i nostri interessi nazionali, non fossero questioni che riguardano l’Italia e il suo futuro economico ma ci fossero estranee come la esplosione di una stella supernova in un’altra galassia.
Con riferimento all’uso improprio delle tecnologie, Intelligence Brief dell’ 11 Ottobre 2012 informa che l’utilizzo di prodotti esportati in tutto il mondo dalle due principali imprese tecnologiche cinesi nel campo della telefonia mobile e più in generale delle telecomunicazioni, (Huawei Technologies Ltd. e ZTE Corp) è stato sconsigliato dallo House Intelligence Committee USA perché tali beni sono sospettati di essere associati a virus informatici che potrebbero, in caso di inasprimento del confronto strategico in atto fra USA e Cina, far scattare una paralisi dell’apparato produttivo e debilitare le difese militari USA e di molti altri paesi (cfr Intelligence Brief by Cannistraro Associates October 11, 2012: The American House Intelligence Committee warned companies should avoid sourcing network equipment from China’s two leading technology firms because they pose a national security threat to the US. The panel said in a report that regulators should block mergers and acquisitions in this country by Huawei Technologies Ltd. and ZTE Corp, among the world’s leading suppliers of telecommunications gear and mobile phones. Reflecting US concern over cyber-attacks traced to China, the report also recommends that government computer systems not include any components from the two firms because that could pose an espionage risk. But it could also spark retaliation by China against US companies doing business within its borders. Leaders from Huawei and ZTE both played that card on Monday when the House report was issued, warning that American bans on buying their equipment could spark similar trade bans elsewhere around the world. China’s Foreign Ministry spokesman Hong Lei said China’s telecom companies have developed their international business based on market economy principles. Meanwhile, the largest US telecommunications firm Cisco Systems has ended its partnership with ZTE after an internal investigation into charges the ZTE company broke US sanctions by selling Cisco networking gear to Iran).
Gli ha fatto eco lo stesso giorno e sul medesimo argomento il Financial Times (cfr John Gapper “It is too late for America to eliminate Huawei” page 9). L’eco sulla stampa italiana non c’è ancora.
Eutimio Tiliacos