Grande successo di critica per l’artista Lea Gramsdorff, oggi curata dalla Galleria THECA, che sarà presente il prossimo 25 settembre con due opere all’evento Allianz Bank partrocinato da Golf People.
Vi proponiamo di seguito l’articolo scritto da giornalista Maurizio Memoli, che ci racconta l’ultima esposizione dell’artista italo-tedesca in Sardegna, a Cagliari, sua terra di adozione.
A volte mi capita di sognare di galleggiare nello spazio infinito, immenso e oscuro, incerto, immobile e pieno di un numero imprecisato di oggetti piccolissimi e lontanissimi.
Lì danzo lento dietro lo sguardo che salta impazzito da un oggetto all’altro cercando quello giusto, quello possibile, raggiungibile, che voglio toccare e forse, così, comprendere.
Ma non ci riesco. Una volta raggiunti, gli oggetti sono sempre troppo piccoli e lontani e poi, improvvisamente, vicinissimi e enormi, impossibili da contenere tra le mani, tra le cose note, tra le cose certe.
Nei quadri di Lea si ritrova questo sogno, scovato e aperto nell’avventura dell’Apollo18, l’ultima e la prima mai partita perché abbandonata, delusa prima di ogni possibile scoperta.
Le stanze di Lea appese nel vuoto immenso, buio, immobile e pieno, legate a fili sottilissimi che si spingono fuori margine, sono proprio come gli oggetti che s’incontrano nei sogni e come quelli che avremmo temuto di scoprire tornando nello spazio un’altra e ultima volta.
Ci attirano e ci atterriscono quegli oggetti, vorremmo starci dentro, protetti dalle inquietudini dell’ignoto e li vediamo solo da lontano, incomprensibili nel contrasto con la serena normalità
dei piccoli pezzi quotidiani del nostro vivere: le rassicuranti sedie delle case, i frammenti dei giornali, la luce rifratta dei desideri, il mare teso e i cieli bruni.
Tratti sottili come pensieri, decisi e incerti, configurano le prospettive inesatte e irripetibili dello Spazio che emerge per sottrazione, riduzione, assenza, vuoto. Un caos pre-creativo che ci è precluso dalle nebulose di filamenti, nidi di idee, scarabocchi di parole e remore. In una versione sciolta e confusa del tratto di penna col quale Alighiero Boetti metteva “al mondo il mondo” (‘72-’73), qui Lea rimette lo spazio al suo giusto, morbido disordine. L’esposizione è un viaggio nelle nostre paure, nelle nostre inquietudini, nello spazio mai visitato delle nostre incognite, in quello abbandonato
a sé stesso dalla non-volontà di spingerci davvero nei perché della solitudine, nei come del buio e della luce, nel dove del frastuono di graffi e pensieri rapidi e fragilissimi. Le tele formate da uno, due tre o quattro parti una nell’altra, una sull’altra, non formulano l’equilibrio estetico o formale del mondo quanto misurano l’impossibilità che un unico pensiero, un mandala occidentale
tutto materialità e esplorazione razionale (anche quello delle missioni spaziali) possa chiarire il profondo delle paure che persistono nelle piccole materialità di ogni giorno.