FINANZA. LETTERA ANESTI Agosto 2012

Analisi elaborata da Eutimio Tiliacos advisor Gabbrielli & Associati, past chairman Italian Linacre Society Oxford University, Socio Onorario Assoconsulenza Associazione Italiana Consulenti di Investimento www.assoconsulenza.eu


LETTERA ANESTI Agosto 2012

Popolazione e territorio sono concetti simili ma non sempre coincidenti da un punto di vista geografico e diventano congruenti solo se esiste tra loro un nesso economico. L’odierna politica tedesca verso l’area Euro ed in particolare verso i paesi cosiddetti “periferici” di quell’area sembra non tener completamente conto di questo aspetto la cui ignoranza nelle epoche passate è stata causa di crolli di vasti imperi come l’impero romano e dopo di questo di quello carolingio solo per citarne alcuni.

Secondo lo storico Peter Heather, Fellow di storia medioevale al Worcester College dell’Università di Oxford in Inghilterra (cfr “La Caduta dell’impero romano. Una nuova storia” ed: Garzanti 2010) infatti a determinare la caduta dell’impero romano non furono direttamente gli Unni nel loro spostamento verso Ovest ma gli effetti indiretti che questo fatto storico generò con il riversarsi dal 376 D.C. nel territorio dell’impero romano a sud e ad ovest del Danubio di centinaia di migliaia di abitanti di tribù di ceppo linguistico germanico (Goti, Svevi, Vandali) o iranico (Alani) originariamente stanziate al di fuori dei confini dell’impero e in fuga dagli Unni. Questi ultimi non avevano alcuna intenzione di sostituirsi a Roma nel prelievo fiscale ma volevano solo scorrazzare per l’Europa saccheggiando qua e là e furono per anni persino un esercito di riserva alleato di cui si servì Roma stessa per tenere a bada le altre tribù barbare. Il sacco di Roma del 410 D.C. fu infatti conseguente solo alla circostanza che le milizie mercenarie unne non avevano avuto da Roma il soldo da lungo tempo a loro dovuto per i servigi resi all’impero. A provocare la rovina dell’impero furono piuttosto le tribù transfughe dagli unni che da quel 376 in poi – prima con il consenso dell’imperatore Valente e poi con la forza- si impossessarono di porzioni progressivamente crescenti di territorio sottraendole al fisco romano, determinando così una caduta dei proventi che sino ad allora avevano alimentato la macchina bellica indispensabile per garantire ai cittadini la pax romana e la difesa dei confini. Si dice infatti che gli Unni preferissero conquistare popolazioni da assoggettare lasciando loro ampia autonomia, piuttosto che “territori” con le implicazioni che necessariamente ne sarebbero derivate di far seguire alla conquista territoriale la creazione di una vasta e complessa macchina burocratico/fiscale come quella posta in essere per secoli dai romani. Gli Unni, ancora secondo Heather, erano ben lieti che gli esattori romani continuassero a fare il loro lavoro a favore di Roma anche nei territori da loro occupati, salvo farsi versare un contributo su quanto esatto. Non così le altre tribù citate che annientarono in toto la base imponibile romana nei territori che esse andavano occupando man mano. La lezione che se ne trae è che se per una serie di circostanze, magari non volute o non previste, si priva uno stato o un impero di una significativa base fiscale, a catena si generano una serie di conseguenze che possono determinare effetti dirompenti da un punto di vista economico e distruttivi da quello politico. A volte cioè gli effetti vanno al di là delle intenzioni per quanto buone esse possano essere in origine.

Riportando il discorso ai giorni nostri va osservato che le politiche di rigore di bilancio sono sacrosante ma quando –se attuate con troppa frenesia- conducono a recessioni prolungate e queste generano la distruzione di parte della base imponibile fiscale, poichè minano irrimediabilmente persino il tessuto produttivo, allora qualche riflessione ulteriore si impone. La crisi attuale, che dura ininterrottamente attraverso varie fasi dal 2007 è difatti una crisi atipica per i suoi connotati e la sua durata che ha ecceduto quelle delle precedenti crisi e richiederebbe per il suo superamento, come recentemente enunciato anche dal presidente della BCE, strumenti altrettanto atipici di politica economica e di politica monetaria, mentre viene affrontata ancora con strumenti convenzionali. E’ come se in epoca di guerre missilistiche si volessero combattere battaglie ancora con l’arco e le frecce o si volesse schiacciare una mosca su una lastra di vetro di una finestra usando il martello. In termini di durata la crisi della prima guerra del Golfo durò dal 3 Agosto 1990 al 17 Gennaio 1991, quella asiatica andò dal 27 Ottobre 19997 al 9 Gennaio 1998, la crisi russa dal 4 Agosto 1998 al 28 Ottobre dello stesso anno, e ancora: la crisi delle torri gemelle dal 7 Settembre (cominciò prima del giorno 11) 2001 al 5 Novembre 2001, infine la crisi Enron e poi a seguire la seconda guerra del Golfo andarono dal 3 Luglio 2002 al 7 Aprile 2003. Come si può osservare ciascuna di queste crisi durò un arco di tempo che non ha ecceduto in ciascun caso l’anno e tra una crisi e l’altra ci sono stati periodi di forte ripresa dell’economia globale.

Non è questo il caso della crisi attuale che –come appena accennato- dura ininterrottamente dal 9 Agosto 2007 e ha visto succedersi in un tutt’uno al suo interno anche la crisi della Lehman (15 settembre 2008-27 Maggio 2009), quella greca (dal 6 Maggio 2010) e quella più generale di altri paesi dell’Euro (dall’8 Agosto 2011). Le misure adottate per contrastarla hanno comportato un netto aumento del debito pubblico nella generalità dei paesi interessati trasferendo a carico dei contribuenti i guasti di una politica finanziaria che è benevolo definire arrischiata. In aggiunta –è questo il dato più allarmante- hanno implicato pesanti effetti recessivi in alcuni paesi dell’area euro che hanno modificato, comprimendola invece di allargarla, la base imponibile fiscale come accadde all’epoca del collasso dell’impero romano. E’ come se un fabbro picchiasse con un martello sull’incudine per raddrizzare una barra di acciaio e il martello gli rimbalzasse sul viso aprendogli una ferita sulla fronte. Molte attività hanno cessato di esistere o sono sull’orlo di farlo e il tasso di attività complessivo misurato dagli occupati effettivi rispetto alla popolazione attiva va restringendosi ad una velocità mai vista prima nel dopoguerra, specie nei paesi periferici dell’Area Euro e quindi anche in Italia. Che anche l’Italia rischi la de-industrializzazione per il prolungarsi della crisi è un fenomeno possibile pur se ancora evitabile. I dati del trasporto merci del primo semestre 2012 confrontati con quelli a livello europeo lo testimoniano con punte negative più accentuate proprio riguardo all’interscambio con l’estero (cfr “Per quanto riguarda l’autotrasporto su strada, si legge in una nota diffusa da Confetra (Confederazione Generale Italiana dei Trasporti e della Logistica) , il comparto internazionale riesce a mantenere una certa stabilità sul mercato con una perdita di traffico e di fatturato di solo –0,5 per cento. Ben diversa la situazione per gli operatori nazionali che perdono quote rilevanti sia di traffico –4 per cento che di fatturato –5 per cento…. In forte calo anche il cargo aereo –5,8 per cento, che soffre del rallentamento della crescita delle economie asiatiche. Anche il traffico marittimo chiude il semestre con un segno negativo –5,1 per cento (TEU) e –3 per cento (rinfuse)…. Il comparto ferroviario continua anche nel primo semestre 2012 a registrare perdite di traffico –4,8 per cento, confermando la crisi strutturale del settore… Per quanto riguarda il transito di mezzi pesanti lungo i principali valichi alpini i dati sono tutti negativi: Fréjus –7,9 per cento, Ventimiglia –5,6 per cento, Brennero –4,8 per cento, Monte Bianco -2,3 per cento. Nel traffico aereo il polo milanese Linate/Malpensa segna –8,68 per cento, cui risponde con un -8,16 per cento il polo romano di Ciampino/Fiumicino. Positivo solo Bergamo Orio al Serio +1,6 per cento.” Da: Ferpress, 3 Agosto 2012) – Ma non tutte le responsabilità della attuale situazione italiana possono essere ascritte ai duri provvedimenti fiscali impostici dall’Europa e alla conseguente parziale perdita di base imponibile fiscale per scomparsa del tessuto delle imprese e degli occupati, se è vero, come è incontestabilmente vero, che la nostra crisi industriale dura da parecchi anni essendo il nostro sistema industriale condizionato da “nanismo” che ha compromesso la capacità di competere efficacemente sui mercati internazionali sia per ciò che riguarda le imprese sia per quanto concerne i nostri sistemi infrastrutturali (porti, linee ferroviarie, valichi alpini e appenninici) troppo polverizzati vetusti e disorganici sono questi sistemi (per carenza di politica industriale e di scelte oculate in materia di trasporti) privi pertanto di peso specifico e di capacità attrattiva nella giusta misura per conseguire le economie di scala necessarie al salto tecnologico che altri paesi hanno realizzato lavorando a partire dalle dimensioni ( cfr “Finmeccanica non ha le risorse e le capacità strategiche per supportare lo sviluppo nel settore trasporti. Non siamo in grado di sviluppare una tecnologia avanzata perchè mancano le risorse sufficienti”, ha detto il presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, in audizione al Senato, parlando del piano di dismissioni delle attività no core di Finmeccanica e in particolare di quelle legate al trasporto ferroviario…. Quanto ai trasporti ”abbiamo perso capacità tecnologiche e industriali per la parte ferroviaria”, ha dichiarato Orsi’.Parlando di Ansaldo Breda, il numero uno del gruppo, ha spiegato ”siamo estremamente piccoli, quando ci confrontiamo con i nostri competitor, come Alstom, Siemens e Bombardier, difficilmente riusciamo a vincere”. Da Ferpress 2 Agosto 2012). Questa l’economia reale.

Ma torniamo all’economia monetaria. Le manovre cosiddette “non convenzionali” per generare se non una robusta ripresa (che è affare di politica economica e fiscale demandata in larga parte alla responsabilità dei governi) quantomeno per porre un argine all’esplosione degli spread e favorire il ristabilimento di un clima di maggior fiducia, sono al momento gli obiettivi che la BCE vuole perseguire senza far ricorso a misure “convenzionali” proposte da alcuni quali l’innalzamento dei target inflazionistici che potrebbero recare più danno che benefici al sistema economico e deprimere ulteriormente il PIL. Secondo infatti quanto riportato in uno studio del Fondo Monetario, apparso a Luglio, ove la riduzione in termini reali del debito nei paesi interessati negli ultimi anni dalla crisi finanziaria (e dunque parliamo non solo di Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda ma anche di Inghilterra e Stati Uniti solo per citarne alcuni) avvenisse per via di un aumento dei cosiddetti “target inflazionistici”, ovvero del tasso massimo di inflazione considerato accettabile dalle autorità monetarie, ciò porterebbe non ad una riduzione in termini reali del debito pubblico ma ad un suo aumento. Lo studio mette infatti in evidenza che un aumento di due punti percentuali del tasso di inflazione (ad esempio dal 2% al 4%) provocherebbe in paesi come gli Stati Uniti un aggravio dei costi del welfare pari allo 0,3% del PIL; se l’inflazione salisse al 10% l’aggravio sul bilancio pubblico dei costi del welfare potrebbe, in certe condizioni, arrivare all’equivalente del 7% del PIL“The key finding of this paper is that an increase in inflation targets generates additional welfare costs, even after taking into account the constraint of the zero lower bound on nominal interest rates. Based on parameter values consistent with U.S. data and using a conservative approach, it is estimated that a rise in inflation targets from 2 to 4 percent gives rise to additional welfare costs equal to about 0.3 percent of real income. These additional welfare costs could be as high as 7 percent of real income, depending on parameter values…… Thus, while acknowledging the appeal of raising inflation targets to offer more room to maneuver to policymakers in the conduct of monetary policy, the analysis in this paper recommends caution about adopting such an option”. © 2012 International Monetary Fund WP/12/189 IMF Working Paper, Monetary and Capital Markets Department “On Price Stability and Welfare” July 2012. Ben maggiori sarebbero gli effetti negativi in Europa a meno che non si vogliano ipotizzare sconvolgimenti sociali di ampia portata e il dissolversi della politica di coesione il cui venir meno nelle trascorse epoche storiche è sempre stata una delle cause, non certo la meno importante, della decadenza e della frantumazione degli stati, e ha generato al ccontempo guerre rovinose.

Eutimio Tiliacos